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Massimo Vaggi
Sarajevo novantadue Un racconto dalla
città assediata
Un popolo inconsapevole, una
guerra che comincia
Trent'anni fa Sarajevo veniva assediata
in
libreria
2022
Narrativa (Reissue)
214 pagg.
ISBN: 9788899699628
20,00 euro ACQUISTA
LIBRO
(al prezzo scontato di 18,00 euro)
Il
Fatto quotidiano Lorenzo
Mazzoni 'Sarajevo novantadue’, il racconto
dell’assedio attraverso una storia intimista e familiare
9 novembre 2015
(leggi)
Inkroci Heiko
H. Caimi Il sogno del calcio e il senso della
fuga
luglio 2015
(leggi)
La
Gazzetta, Max Carta bianca Luca
Bratina Sotto assedio
4 aprile 2013
(leggi)
Corriere
della Sera Matteo
Giancotti Un'adolescenza sotto assedio
17 febbraio 2013
(leggi)
Radio
Città del capo Humus,
Sergio Rotino intervista Massimo Vaggi
12 febbraio 2013
Carmilla Fabrizio
Lorusso Massimo Vaggi: Sarajevo novantadue
27 gennaio 2013
(leggi)
Club
Dante Un romanzo 'utile' su Sarajevo
13 gennaio 2013
(leggi)
La
Repubblica Alberto
Sebastiani L'assedio di Sarajevo
30 ottobre 2012
(leggi)
Massimo Vaggi presenta Sarajevo novantadue (prima edizione, 2012)
(from Lara Peviani on Vimeo)
Aprile 1992, città di Sarajevo. Milo ha sedici
anni, gioca a pallone, va a scuola e fa la corte a Lana. Nella vita
che ancora per poco continuerà a essere normale, il padre lavora
come giornalista, Ibrahim l’allenatore sogna per il ragazzo
un futuro in una squadra importante, il professor Simo Zivanovic,
storico appassionato, tra una lezione e l’altra scrive di Jovan
il contadino, rapito nel 1531 dalle milizie di Alibeg per lavorare
alla costruzione della moschea del Bey. Ma Sarajevo è città
sull’orlo di un baratro, nonostante la finzione dei più,
e quando l’assedio inizia si frantumano le regole di ogni comunità.
Niente più scuola e pallone, dunque, e nemmeno più un
padre; solo granate, esplosioni, case dalle imposte chiuse dietro
cui nascondersi e vie con lamiere rabberciate tese tra i lampioni,
fragile barriera che vuole proteggere i passanti dalla vista dei cecchini,
non certo dai loro spari. Milo potrebbe fuggire, con l’aiuto
di un sergente del contingente Onu, ma non sa decidersi: cerca il
consiglio del professore, però Simo Zivanovic non è
più in grado dii mmaginare un destino qualunque nemmeno per
Jovan, personaggio di carta.
In Sarajevo novantadue Massimo Vaggi fotografa l’immobilità
di un assedio che imprigiona il futuro di un’intera incredula
popolazione e, dimentico di come quello sia il luogo dove uomini diversi
per cultura e religione hanno imparato nei secoli cosa significhi
vivere in pace, frantuma ogni criterio del vivere conosciuto.
"Da dove sono arrivati, al riparo di un’antica
acacia e protetti dalla stessa arroganza cieca dei vincitori che non
sospettano nulla, Vladko e Hasan possono vedere che quella strada
alla fine si apre in una larga piazza con al centro un giardino e
una statua e tutto intorno gli uomini che lo pattugliano, con le pistole
Scorpion e gli AK-47 in braccio. Non c’è azione, tutto
sembra fermo. Osservando meglio però vedono, infine, ciò
che è già successo, e si bloccano, accasciandosi come
esausti per una fatica immane che è toccata ad altri, e come
storditi e rallentati continuano a guardare l’orrore, nel silenzio
rotto dal cinguettare di passeri e dal rumore del vento e delle foglie.
È Hasan che parla per primo, e le parole escono da profondità
mai conosciute. «Io non ho niente da scrivere. Questa»
e indica la città «è adesso tutta roba tua. Vai.»
Con lentezza e tecnica e amore, del tutto fuori luogo viste le circostanze,
Vladko smonta allora il 50 millimetri per sostituirlo con un potente
teleobiettivo, e fotografa.
Fotografa la donna riversa a terra in una posizione grottesca, volto
al cielo e braccia spalancate, le gonne sollevate oscenamente a rendere
più vergognosa la sua morte, fotografa il cane che lecca il
sangue rappreso sulla fronte del vecchio appoggiato alla parete di
una casa bruciata, fotografa il bambino che urla e piange seduto sul
marciapiedi davanti a due armati che ridono di lui, fotografa l’uomo
che prende a calci il cadavere di una donna, che sobbalza inerte,
come un giocattolo rotto.
Fotografa, e pensa di aver fotografato la fine del mondo."
L’Autore:
Massimo Vaggi è nato a Domodossola
nel 1957 e vive a Bologna dove esercita la professione di avvocato.
Ha pubblicato: Un silenzio perfetto (1996), Tu, musica divina (1999),
Delle onde e dell'aria
(2002), Al mare lontano (2005), Kinshasa - una storia di adozione
(2018). Suoi racconti compaiono nelle collettanee Sorci verdi - Storie
di ordinario leghismo (2011) e Lavoro vivo (2012). È stato
redattore di Letteraria, dalla sua fondazione nel 2009 a
opera di Stefano Tassinari, rivista di studi di letteratura sociale.
Per Paginauno ha pubblicato anche Gli
apostoli del ciabattino (2016).
Intervista
all’Autore alla prima edizione (2012) di Giuseppe Ciarallo
Nel ventennale dell’assedio di Sarajevo,
che fu il culmine dell’assurda guerra fratricida nell’ex
Jugoslavia, esce il tuo bel romanzo “Sarajevo novantadue. Un
racconto dalla città assediata”. Qual è stata
la molla che ti ha spinto a voler narrare un episodio così
importante nella storia d’Europa, eppure da noi tanto sconosciuto
ai più, comunque oggi completamente rimosso?
Da qualche anno era in corso nei territori della ex Jugoslavia una
sorta di guerra 'tutti contro tutti', ma che in qualche misura aveva
conservato ancora le caratteristiche di conflitto tra Stati. Nel 1993
ho partecipato a una missione che non è riuscita ad andare
al di là del territorio croato, nel corso della quale però
ho visitato tra le altre cose alcuni campi di rifugiati bosniaci,
dove ho incontrato profughi ed ex combattenti. La particolarità
di quanto stava accadendo a Sarajevo mi colpiva moltissimo, sia per
le caratteristiche della città, che almeno nel nostro immaginario
per decenni era stata portata come esempio di civile convivenza tra
popoli, etnie e religioni, sia per la difficoltà di comprendere
le ragioni del conflitto, di distinguere le responsabilità,
di individuare le motivazioni anche individuali dell’esplodere
di tanta violenza.
Con il tempo, la guerra ha assunto un aspetto mostruoso, di strage
di civili assediati da parte di gruppi paramilitari, anche se all’inizio
la situazione appariva molto più indefinita, e proprio questa
caratteristica, dell’affermarsi nell’individuo dell’istanza
etnica ultra-nazionalista oppure del senso dell’appartenenza
a un territorio e a una storia collettiva, mi sembrava un nodo fondamentale
da comprendere. Tra gli assediati c’erano molti serbi, che hanno
scelto di restare abitanti della città, e non membri attivi
del 'popolo celeste' in una guerra di crociata: tra questi alcuni
intellettuali, giornalisti, militari, anche di grado elevato. Del
che esiste un’eco nel romanzo: uno dei protagonisti, il professor
Simo Zivanovic, è serbo.
Mi chiedevo tra le altre cose, cosa potesse portare alla scelta di
un’opzione o dell’altra. Ho dunque cercato di comprendere,
ma più tentavo di farlo più mi rendevo conto dell’inadeguatezza
dell’infor-mazione, della semplificazione dei concetti e dei
criteri, sino ad arrivare al silenzio totale di chi, nel dubbio, preferiva
parlare e occuparsi d’altro. A questa compagnia taciturna apparteneva
buona parte della nostra sinistra politica, impegnata in questioni
che si pensavano ben più importanti del massacro che stava
avvenendo al di là di un tratto di mare così stretto
come l’Adriatico, e con l’eccezione del movimento pacifista,
che pure da quell’esperienza è uscito in qualche modo
traumatizzato e reso incerto nelle sue granitiche convinzioni.
Per esempio – ma stiamo parlando degli anni della fine del conflitto
– nel dibattito sulla necessità o meno di operazioni
di polizia internazionale a difesa degli inermi: non dimentichiamo
che a Sarajevo tutto è finito dopo qualche volo della Nato
e alcuni bombardamenti mirati sulle postazioni paramilitari. Fatto
questo che ha aperto un bel problema e sfondato la diga di contenimento
delle discussioni 'chiuse'.
Insomma, l’assedio di Sarajevo mi sembrava un laboratorio di
idee per il millennio a seguire, e un bignami dell’orrore nazionalista
o religioso. Con quanto restava della città hanno bellamente
banchettato non solo i cetnici, ma anche i croati, persino i musulmani
ultraortodossi che sono arrivati per difendere non la popolazione
ma un’ipotesi di esclusione religiosa. A voler tacere poi delle
bande criminali e delle organizzazioni mafiose.
Infine, devo dire che quella terra mi ha sempre affascinato, soprattutto
per la sua capacità di produrre storia (più di quanta
ne potesse digerire, affermava Churchill), e se vogliamo restare sul
piano letterario, per quella produzione che della storia del territorio
faceva l’oggetto della propria indagine: penso al Ponte sulla
Drina di Ivo Andric, per esempio.
Ho trovato estremamente efficace il tuo ambientare le prime
pagine del libro in un momento di sospensione, una sorta di filo di
rasoio, quando nulla è ancora avvenuto della follia che si
scatenerà da lì a qualche ora…
Il romanzo segue una cronologia piuttosto rigorosa, come una specie
di diario, a partire dal 4 aprile 1992. È la data dell’assalto
a una caserma della polizia da parte di alcune bande, che convenzionalmente
viene ritenuta l’inizio del conflitto (sono restio a parlare
di 'guerra', è un concetto troppo riduttivo), due giorni prima
dell’assassinio di Suada Dilberovic e di Olga Susic, le prime
vittime civili. Suada era una studentessa di Dubrovnik arrivata in
città per la manifestazione pacifista che avrebbe voluto accendere
i riflettori sulla città.
Sono tre i capitoli ambientati durante il 4 aprile, e quattro i punti
di vista dei fatti di quel giorno: Milo, il professore, i genitori
di Milo, uno in città e l’altro in un paese non troppo
distante, uno dei primi in Bosnia a essere oggetto di operazioni di
pulizia etnica. Dopo di che gli avvenimenti sono raccontati per una
buona parte del romanzo nella loro evoluzione giornaliera, che però
– non dimentichiamolo – è stata travolgente. Nel
giro di pochissime settimane Sarajevo è diventata un’altra
città o meglio un altro mondo, non solo dal punto di vista
dell’organizzazione politica e militare, ma perché erano
saltate tutte le regole di convivenza: l’assassinio di due ragazze
da parte di un cecchino è stato un buon biglietto da visita
per ciò che sarebbe accaduto.
Dici l’atmosfera 'sospesa': molti pensavano che la presenza
dell’esercito ex-federale in città e la stessa tradizione
'tollerante' della popolazione l’avrebbero salvata. Ho provato
a rendere questo 'trattenere il fiato', più o meno inconsapevolmente,
più o meno ciecamente. D’altronde si dice che una delle
caratteristiche degli abitanti fosse – e sarebbe rimasta anche
durante l’assedio – una feroce, ostinata volontà
di vivere normalmente anche sotto le bombe. Mi sono però concesso
di rappresentare anche la disgregazione della volontà di vivere,
ma l’ho fatto in forma metaforica: il professor Zivanovic, che
insegna storia, è intento a scrivere delle vicende di un contadino
bosniaco che nel XIV secolo è catturato dai soldati del Governatore
di Bosnia e obbligato a lavorare per la di costruzione della nuova
moschea della città. Il professore in questo racconto si smarrisce
poco per volta, obbligando il povero contadino a una corvée
infinita e ripetitiva, inverosimile dal punto di vista logico e storico.
Il fatto è che non è più in grado di immaginare
un destino nemmeno per il personaggio di un racconto, dal momento
che è ormai totalmente incapace di interpretare gli avvenimenti
intorno a sé. Smarrisce il filo della narrazione, e smarrisce
anche il filo della propria esistenza.
Nel raccontare questa guerra, scoppiata
alle porte di casa nostra non senza colpe e omissioni da parte delle
Comunità europea e internazionale, metti in risalto quanto
sia labile il confine tra normalità e orrore, tra convivenza
pacifica e odio profondo, e soprattutto quanto poco tempo occorra
per scivolare dall’una all’altro. Come a dire, stiamo
attenti perché nessuno può dirsi al sicuro da simili
follie…
Di follie simili ne abbiamo in casa. Borghezio ha definito 'patriota'
un criminale come Mladic, e Borghezio è parlamentare europeo
per la Lega Nord. Il che significa che ha ricevuto voti sufficienti
per diventarlo, e che la sua candidatura è stata accettata
dal suo partito. In qualche modo però ha ragione, Borghezio:
Mladic è davvero un patriota, peccato che lo sia stato nel
significato più repellente del termine. Per l’affermazione
della primazia del popolo celeste, eletto da Dio e dalla Storia a
contrastare l’avanzata turca e musulmana in Europa, ha fatto
massacrare migliaia di civili. Tutto sta dunque a capire cosa significhi
'patriota', e quali valori o dis-valori questa parola onnicomprensiva
porti con sé. Insomma, ragioni per odiare senza ragione se
ne trovano sempre, sono lì a portata di mano, il problema è
la responsabilità nell’assumerle come determinanti, e
nell’organizzare un racconto politico che sia volàno
di questi odi inter-etnici, oppure che in senso opposto tenda a valorizzare
gli elementi di convivenza, anche al limite nel conflitto di culture
e di tradizioni. Penso all’immigrazione nostrana, a chi vorrebbe
affondare i canotti dei clandestini, a chi ritiene che il colore della
pelle o l’appartenenza etnica o la fede religiosa siano elementi
sufficienti per dichiarare, ora e per sempre, l’esistenza di
due vite incompatibili.
Non so se qualcuno possa davvero considerare inevitabili episodi come
la guerra civile in Congo o il genocidio ruandese, non so se qualcuno
creda che davvero il conflitto etnico – che esiste ed è
forte – possa aver determinato da solo l’esplodere della
violenza e del massacro. Io ritengo invece che quelle forze disgreganti
e altre identiche possano essere gestite, e che solo gli interessi
geopolitici ed economici ne impediscano il controllo, o addirittura
in alcuni casi desiderino e favoriscano il loro esplodere.
Nel tuo romanzo, la grande Storia fa da
sfondo alle 'piccole' storie dei protagonisti, stritolati tra gli
ingranaggi di un meccanismo troppo complesso, sul quale non hanno
alcuna possibilità d’intervento. Da qui la scelta estrema
del professor Simo Zivanovic, insegnante del personaggio principale
del racconto, l’adolescente Milo. Le guerre moderne vengono
decise nei Parlamenti e negli alti comandi militari, ma le sofferenze
ricadono poi quasi esclusivamente sulle inermi popolazioni civili…
Il professore a un certo punto tiene un discorso piuttosto confuso,
davanti alla sua classe di studenti, a proposito di quei giovani serbi
che a Sarajevo attentarono alla vita dell’imperatore d’Asburgo,
e del movente della loro azione, nonché di quanto fossero inconsapevoli
delle conseguenze immediate del gesto. Gavrilo Princip era un nazionalista,
un idealista, e dichiarò ai giudici che se avesse saputo che
l’attentato sarebbe stata l’occasione per scatenare il
macello della prima guerra mondiale si sarebbe piuttosto ucciso. Il
professore parla dunque dell’inconsapevolezza, della confusione
dei piani dell’ideologia e della vita della gente, del sottile
equilibrio tra la necessità della prima e l’orrore che
deriva dalle architetture ideologiche quando queste vivono di vita
propria, e autoalimentandosi si distanziano sempre più dai
bisogni di pace e di giustizia sociale, anche di quella che vorrebbero
realizzare. Che il professore tenga un discorso confuso non è
un artifizio letterario: sono io a essere confuso, a questo proposito.
Non ho idee ben definite a proposito delle relazioni tra l’interesse
economico e l’ideologia, e tra questa e la vita quotidiana.
Non le ho e tutto sommato ne sono contento. Credo che un ripensamento
complessivo e 'laico' delle convinzioni in questo periodo e con questa
Storia sarebbe un esercizio utile, forse indispensabile. E poi non
sono così vecchio da dover disperare che un giorno possa finalmente
chiarirmele, le idee.
Chi è Milo, e perché hai deciso
che il protagonista della storia dovesse essere proprio lui, uno spensierato
ragazzino di sedici anni?
Milo è un ragazzo che in altre condizioni avrebbe avuto una
vita bellissima: è intelligente quanto basta, è interessato
al mondo, ha un talento immenso come portiere di calcio. È
sfrontato come solo i ragazzi di quell’età sanno essere,
insomma se fosse vissuto a Roccacannuccia o a Gorgonzola invece che
a Sarajevo sarebbe diventato un atleta di successo. La visione del
mondo di chi tutto ancora deve costruire – e pensa di poter
costruire bene – mi sembrava un punto di vista privilegiato
per osservare nelle pieghe della disgregazione della città,
che si accartoccia, che a un certo punto sembra non avere più
futuro o se l’avrà sarà diverso da ogni immaginazione
consentita. Un punto di vista che non perde un certo dato di freschezza
e di forza adolescenziale, sino all’ultimo, anche quando deve
registrare con dolore e senza capirci niente la perdita più
importante, quella del padre che si smarrisce nel delirio bellico.
Dicono che la forza primitiva degli abitanti di Sarajevo, quella che
ha consentito loro di far suonare quartetti d’archi sotto i
bombardamenti, sia stato l’umorismo. Capace di far saltellare
al di là e al di qua del confine del grottesco e del disumano,
che a volte si confondevano. Adriano Sofri, già in carcere,
mi raccontò una volta una barzelletta che poi ho visto citata
in altri suoi scritti e che mi piace moltissimo: nello stretto tunnel
scavato sotto l’aeroporto di Sarajevo si incontrano due abitanti.
Uno esce dalla città e l’altro ci entra. Quando si vedono
esclamano tutti e due, nello stesso momento: ma dove cazzo vai?