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Per inganno
non s’intende necessariamente il tradimento, forse la minore
menzogna possibile, ma piuttosto il gioco delle maschere.
Marzio e Chiara, David e Norma. Elena, Oscar. Amore
e fedeltà. Infedeltà e amore. La logorante incertezza
di un rapporto che si vorrebbe invariato negli anni. Il desiderio
di una storia che possa continuare a rinnovare le emozioni degli inizi,
e la consapevolezza della sua impossibilità. Il cinismo di
chi crede nella periodicità degli amori. Il romanticismo inutile
di chi si ostina a tenere in vita una relazione che ha perduto da
tempo la freschezza originaria.
In questo suo lucido romanzo dalla trama mirabilmente orchestrata,
Walter G. Pozzi fa un’analisi a tutto tondo delle relazioni
amorose, scandagliando i più svariati e variabili atteggiamenti
di chi vive, di chi ama, di chi crede di amare. Mano a mano che procede
nella sua narrazione, Pozzi agita le acque, le rende sempre più
torbide, fino ad annullare totalmente la trasparenza di coloro che
considerano il rapporto a due come un monolito inscalfibile. Ed è
così che i ruoli si ribaltano, inaspettatamente, spontaneamente,
contro ogni rigido principio che nella realtà non trova mai
una facile applicazione. Nel romanzo l’Autore non dà
spazio e risposte o a dimostrazioni; l’unica tesi di qualche
respiro è quella che avvalora l’ambiguità, della
vita e dell’amore.
L’Autore:
Walter G. Pozzi (Monza, 1962) è
scrittore, sceneggiatore e insegnante di Scrittura creativa.
Ha pubblicato i romanzi: Il corpo e l’abbandono (Tranchida
1997 e 2000), L’infedeltà (Tranchida 2000),
Altri destini (Tranchida 2003, Paginauno 2011) e, in collaborazione
con altri autori, la collettanea di racconti Sorci verdi. Storie
di ordinario leghismo (Edizioni Alegre, 2011).
Intervista
all’Autore
Come mai un
romanzo sull’infedeltà?
Perché volevo scrivere una storia che entrasse, per quanto
possibile, nelle profondità di quel curioso mistero che unisce
due persone. E più lavoravo e più realizzavo che una
delle costanti del vivere umano fosse caratterizzato da una fondamentale
necessità di tradire, non solo la persona con cui abbiamo una
relazione, ma anche se stessi. Da questo nasce il titolo, che non
vuole essere né intrigante né fuorviante, come invece
hanno affermato alcuni.
Eppure il titolo raggiunge il risultato di
incuriosire e, ho notato poco prima in sala, che quando il dibattito
si spostava in maniera specifica sul problema della fedeltà
l’interesse aumentava. È solo un caso?
Naturalmente no. Io credo che il romanzo tenti di sviscerare le diverse
infedeltà presenti nell’uomo. Non tutti, sarebbe impossibile
farlo per ragioni connaturate alla natura di una narrazione. Proprio
per questo un romanzo non potrà mai essere considerato come
un trattato di psicanalisi, o di sociologia o di politica. Però,
avrai notato leggendo L’infedeltà, il tradimento
amoroso è solamente una delle parti della narrazione.
Però chissà perché il
lettore leggendo il titolo immagina subito quello.
Sono d’accordo, ed è normale in un tipo di società
che ha ristretto l’uso del vocabolario a poche parole dai significati
standardizzati. Oggi che ogni struttura mediatica è impegnata
ad annullare la capacità critica dell’individuo, capita
che i termini vengano impiegati in riferimento a una utilità
diretta. Il tradimento, le corna, sono il materiale più immediato
su cui convergono i diversi messaggi, pubblicitari o narrativi sul
modello delle fiction televisive e delle telenovela. Inondati come
siamo, è perfettamente normale che si finisca per pensare come
il sistema impone. Ecco allora che diventa meccanico, appena si legge
una parola, ridurne i significati fino a rinchiuderla nei recinti
della banalità.
E qual è l’infedeltà
più praticata delle persone?
Quella della mente, non ho dubbi. La realtà riserva ben poche
emozioni se non le si contrappone un’esistenza immaginaria,
costellandola magari di desideri e di realizzazioni virtuali.
In questo ci aiuta la televisione, non credi?
Tutt’altro! La televisione rende più grama l’esistenza
facendo credere che solamente stando dentro lo schermo si è
qualcuno. Al di fuori invece si è soli. Là tutti sono
belli, ricchi, brillanti e hanno successo. Per cui mi chiedo con quali
occhi, dopo avere visto tanta perfezione, si riesce la sera a guardare
il proprio partner. Con una cultura simile l’anonimato diventa
difficile da sopportare. In fondo è anche il messaggio sfruttato
dalla pubblicità.
In che senso?
Nel senso che non produce solamente gente famosa bensì anche
e soprattutto "testimonial". Il messaggio in sintesi è
questo: tu sei un poveraccio, mentre questo è ricco e famoso.
Guarda l’orologio che ha al polso. Se vuoi uscire anche tu dalla
fascia dei poveracci devi comprare quell’oggetto. È in
questa sorta di transfert che si gioca tutta la pubblicità.
E tu che fai? Lo compri. Non è già questa, in fondo,
una forma di infedeltà per noi poveri mortali. Ogni messaggio
viaggia su questo, e non solo negli spot. Una volta creato il linguaggio,
tutto diventa pubblicità.
Ritorniamo all’infedeltà così
come appare nel tuo romanzo.
L’infedeltà da cui prende il titolo il libro è
solo uno dei temi narrativi. È quello dà cui ha origine
l’intreccio. Essa si evidenzia non nel tradimento, che quando
avviene ha la leggerezza della completezza dell’essere e non
già dell’inganno, ma nel ragionare sull’abitudinario
vivere l’amore di coppia che incapsula le persone in ruoli stabiliti
da cui poi cercano di uscire. L’infedeltà è mentale,
in quanto l’essere non è la specificità di essere
marito e moglie, ma anche altro che l’usura della consuetudine
nasconde. Questo altro può affiorare come un desiderio di libertà,
che vada oltre i canoni usuali, qualcosa che accende la passione,
come nuovo entusiasmo d’amore. È questo un ritrovarsi
e un rinnovarsi. La vera infedeltà è anche proporre
al partner false maschere in una dimensione etica con il timore di
non ritorno, come per Marzio, il protagonista del romanzo. L’infedeltà
è la ricerca di libertà di affermare il proprio Io in
una dimensione estetica, di imprevedibilità, come per David,
l’altro protagonista maschile che si contrappone a Marzio.
Ecco, parliamo dei due protagonisti maschili.
Perché nelle loro diversità caratteriale e di scelta
di vita, appaiono entrambi infelici, in preda all’angoscia e
all’insoddisfazione?
Marzio ama, si sposa, si annulla nella compagna, si riduce in un ruolo
che non dà nuovi slanci né felicità. David ama,
ma conserva il suo Io, la sua imprevedibilità, non si sposa
ma si sente in colpa. Il rischio per entrambi è l’angoscia:
angoscia di avere ma non di essere, angoscia di essere ma non di avere.
Infatti l’angoscia è l’altro
tema esplorato sul filo della logica e che è strettamente legata
all’amore come perdita d’identità. Cosa mi dici?
Eh, l’identità… Basta poco per perderla: una palla
senza una elle (qui Pozzi si riferisce a uno dei momenti più
poetici del suo romanzo, ndr) diventa pala e la bella rotondità
giocosa diventa strumento per scavare una fossa. Un padre al di fuori
delle mura domestiche non è più lui; una moglie che
si incontra per strada perde i connotati usuali e diventa un’altra
donna.
Fin qui i personaggi maschili. Però
l’infedeltà nel romanzo non viene praticata solo da loro.
Alla fine appaiono delle differenze anche nel modo di tradire. È
un caso legato ai personaggi che hai scelto, o è connaturato
alla diversa natura dell’uomo e della donna?
Ecco il punto! L’errore sta nel pensare che esista un solo tipo
di infedeltà, la stessa per l’uomo e per la donna. Non
è così, a mio modo di vedere, e in questo senso i personaggi
non sono legati alla storia in virtù del loro carattere, bensì
in quanto archetipi delle essenze dell’uomo e della donna.
Ti riferisci al diverso modo che hanno di
relazionarsi con l’altra persona?
Esatto. Non è solo un luogo comune dire che uomo e donna sono
sentimentalmente diversi. In questo l’uomo è piuttosto
mediocre nel bene e nel male, nel senso che non sa amare profondamente,
ma alla stessa maniera non sa nemmeno odiare. Cose che invece riescono
alla grande e in maniera spesso spettacolare nel caso della donna.
E questo, secondo te, perché?
Perché la donna investe sempre tutto in amore. Naturalmente
parliamo sempre per linee generali. Quando la donna parla di condivisione,
l’uomo non sa nemmeno cosa lei voglia dire. E questo perché
l’uomo, in un rapporto cerca il riconoscimento di se stesso;
vuole qualcuno per essere il centro del mondo, salvo poi lamentarsi
di questa condizione quando la donna si dice insoddisfatta del rapporto.
La donna, invece, quando cerca condivisione lo fa anche con piena
disponibilità di cambiare essa stessa allo scopo di crescere.
Insieme, però; e in questo dimostra grande malleabilità.
L’uomo invece non ama i cambiamenti, adora le proprie convinzioni
che lo cullano dandogli sicurezza. Solo che finisce per dimostrare
la sua inguaribile insicurezza. Ma bada, questa tipicità caratteriale
non vale solo per l’amore. Visto che stiamo parlando di un libro
ti porto un esempio di tipo, diciamo, editoriale. La letteratura è
per sua natura territorio di ambiguità perché solleva
domande e non dà risposte; suo dovere è illuminare le
zone d’ombra della società e dell’individuo e in
questo risiede la sua funzione intellettuale; da un romanzo, che sia
degno di questo nome, puoi solo avere dubbi e mai delle risposte.
E infatti, in grande percentuale sono le donne le vere fruitrici della
letteratura. L’uomo in linea di massima non legge. Tutt’al
più ti capiterà di vederlo con il giornale in mano e,
guarda caso, quel quotidiano che la pensa come lui, che non lo scuote
dalle sue certezze. Perché non vuole, non gli interessa.
È una forma di paura, o sbaglio?
Ma l’uomo, in amore, è un grande vigliacco. Se non vuoi
vederlo crollare non chiedergli mai di essere sincero. Lo devi interpretare,
leggere nelle sue parole.
Uno dei momenti più divertenti dell’incontro
di poco fa è stato proprio la citazione di alcune espressioni
tipiche dell’uomo e la giusta interpretazione che bisogna darne.
Ti spiacerebbe ripeterle?
(Ride.) Le frasi classiche sono tre: «Ti voglio bene ma non
ti amo», che significa: ti voglio lasciare ma non ne ho il coraggio.
«Sono in crisi», che significa: ho un’altra. E l’ultima
che è un sempreverde, «Non vediamoci per un po’»,
che vuole dire: fammi provare come va con l’altra e se non mi
trovo bene torno da te.
Ma sono tutti così gli uomini?
Tutti, tranne il sottoscritto.
Nel romanzo sembra esserci un personaggio
chiave con cui tutti inevitabilmente finiscono per confrontarsi. Si
tratta di David. Cosa rappresenta?
L’uscita dagli schemi. Nel romanzo è spiegato con la
metafora del casinò, funzionale a chiarire perché l’uomo
per vivere schematizzi la realtà organizzando la propria umanità
all’interno di regole sociali, civili e religiose. Il che può
non essere un concetto condannabile. Lo diviene se poi ci si dimentica
di avere attuato questa schematizzazione. Qui avviene un’altra
forma di infedeltà. Nell’economia della trama, invece,
David rappresenta per Marzio l’idea di conservare la libertà;
per Norma invece David è un amore che la blocca nel raggiungimento
dei suoi obiettivi e che la costringe a fuggire per non morire, mentre
per Chiara serve a dimostrare a Marzio che il tradimento è
ritrovarsi e non perdersi. Il problema è che David sperimenta
su se stesso che essere liberi non significa automaticamente essere
appagati, essere liberi significa forse rinunciare a qualcuno che
possa essere un punto fermo nella vita; forse significa essere sempre
insoddisfatti.
Tuttavia in fondo c’è una soluzione
all’angoscia del gioco delle parti. La soluzione la trova Chiara,
ma tu non le hai mostrato gratitudine. Nel momento stesso in cui lei
ha concretizzato la soluzione, che il marito intellettuale ha involontariamente
indotto, le hai spento la fonte d’ispirazione. Allora mi chiedo,
cos’è la felicità?
La felicità è concretezza, non metafisica, il che è
un invito a non pensare. Chi si sente appagato non ha bisogno di altro.
L’amore allo stato nascente genera appagamento. L’innamorato
non pensa, gode dell’attimo a sua disposizione. Solo la passione
può far raggiungere in momenti sparsi della vita la felicità.
Il problema è che il binomio passione/felicità non dura
una vita, è composta di momenti e non può raggiungere
l’amore eterno, quell’amore che per concretizzarsi ha
bisogno di approdare formalmente alla convivenza o al matrimonio.
Eppure… eppure ciò che convenzionalmente è amore/matrimonio,
con il tempo, fa assumere agli amanti un’identità in
funzione del ruolo di marito o di moglie, che non è l’intero
essere dell’individuo, ma solo la parte che riguarda il ruolo
che svolge.
Allora non bisogna pensare alla felicità.
È questa la soluzione?
Ma questo è impossibile! La ricerca della felicità è
una tensione insopprimibile, come il desiderio della libertà
di "essere in se stessi" e non in funzione dell’altro.
La non felicità genera la noia. Questo agitarsi in uno stato
di ricerca della felicità e dell’amore mette tutti i
personaggi in uno stato di moto perenne, ma è un falso muoversi
che in realtà non approda da nessuna parte. David e Chiara,
due libertà che si incontrano, non raggiungono la felicità
e l’amore.
Allora il vero amore e la vera felicità
sono nel ricordo?
Diciamo che il ricordo fissa nel passato gli avvenimenti e ha il pregio
almeno di renderli immutabili.
Allora, ricapitolando: il problema sollevato
dal romanzo sta nel comprendere cosa significhi infedeltà,
se e come queste due coppie possano raggiungere la felicità,
e come possa l’amore essere eterno. Sei d’accordo?
Sono d’accordo sul fatto che il problema alla fine resta sempre
un problema.
Parliamo invece della tua scrittura. Cosa
dici a chi ti taccia di kunderismo?
Se ho voglia di prenderlo come un complimento incasso il commento.
Ma siccome non vuole esserlo, rispondo che non ha capito niente del
libro. Che io non scrivo come Kundera, ma che anzi ne sono stilisticamente
molto lontano lo dimostra il mio primo romanzo Il corpo e l’abbandono.
Il fatto è che L’infedeltà si divide
idealmente in due parti. La prima ha un andamento quasi saggistico.
Dico quasi perché un saggio non ha personaggi. È percorsa
da digressioni che hanno come scopo quello di smantellare i luoghi
comuni che popolano le opinioni sull’amore. Vengono analizzati
i personaggi nei loro rapporti ed è vero che appare chiaro
da subito che i protagonisti non sono realmente esistenti, ma una
sorta di identità da laboratorio. Questo, lo riconosco potrebbe
animare sospetti di kunderismo. Ma nella seconda di queste due parti
ideali, i protagonisti si liberano dal giogo cui li avevo sottoposti,
si liberano cioè dalla mano dell’autore e cominciano
a vivere. E vivere vuole dire sbagliare, purtroppo. È probabile
che la prima parte possa disorientare il lettore, ma mi sento di potere
affermare che il piacere che deriva dalla lettura della parte "più
narrativa", è forse dovuto alle trappoline che ho sistemato
qua e là tra una digressione e l’altra.
Un romanzo per lettori, quindi?
Ho capito cosa intendi dire e, con finta polemica, ti rispondo che
un romanziere scrive per i lettori.
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